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atto primo | 103 |
mio da sposa e pudica, fusse restato mio marito. Ma or temo tutto il contrario: che vedendo beffate le sue speranze si volgerá ad odiarmi quanto m’amava; né giudicherá il mio inganno onorato; ma che quello che ho usato con lui, l’abbia usato con gli altri e che ad altri io abbia fatto copia di me; e non credendo ch’io sia pregna di lui, non mi attenderá la promessa. Eccomi infamata, odiata, scacciata e aborrita! O amarissime dolcezze, quanto care mi costate! del mio piacere ho in un tempo e il piacere e il castigo, e mi trovo al fin caduta in un mar di doloroso pentimento. Che debbo dunque accusar il cielo e le stelle perverse?
Mitieto. Che cielo? che stelle?
Cintia. Se da lor giri vengono le mie sventure.
Mitieto. Le vostre sventure vengono da voi stessa e dalle vostre cattive operazioni, perché voi stessa v’avete fabricati i vostri mali. — Orsú a’ rimedi. Io cercherò di turbar il matrimonio fra voi e Lidia, e fratanto imagineremo alcuna cosa migliore; e vo a dar effetto a quanto ho promesso.
Cintia. Ed io a trovar Erasto, che veggendolo sento qualche alleggiamento degli miei infortuni. — Ma ecco la balia di Lidia: verrá a far meco delle solite canzoni. L’uno mi caccia, l’altra mi chiama. Vedrò se potrò sfuggirla.
SCENA II.
Balia di Lidia, Cintia.
Balia. Ove fuggi, petto senza core, core senza alma, alma senza fede?
Cintia. Che petto? che alma? che fede?
Balia. Ti chiamo cosí, Cintio, angeluzzo mio polito, che se non fussi di cosí barbara e discortese natura, i tanti chiari e vivi segni, che hai conosciuti dell’affezion di Lidia, arebbono fatto teco alcun frutto.
Cintia. Deh! che la cagion d’ogni mia doglia è che fui di natura troppo piacevole e cortese che subito apprese e fece frutto.