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58 | la sorella |
Gulone. Bel balordo che sei.
Trasimaco. ... con questa spada in mano...
Gulone. Con un spedo piú tosto, ché saresti meglio guattero di tinelli.
Trasimaco. ... frapparti il viso.
Gulone. Tu non hai altro che frappe.
Trasimaco. Non sei uso, com’io, alle batterie.
Gulone. Alle baratterie sei uso tu.
Trasimaco. Alle bòtte di bombarde e di artegliarie.
Gulone. Di correggie, stimo io.
Trasimaco. Mira il furfante che, burlandosi di me, scherza con la morte. Fatti indietro, poltrone.
Gulone. Ti sei fatto indietro tu, prima che lo dicessi. Tu sei come il gallo d’India: gonfia la gola, arrossisce la cresta, apre l’ali e le batte intorno, e sbuffa come si volesse far qualche gran cosa, poi si ritira. Férmati, schiuma de forfanti.
Trasimaco. A tradimento, ah? cosí se tratta con i pari miei, trattenermi su le parole e poi attraversarmi le braccia? Fálla da gentiluomo.
Gulone. Non fui mai gentiluomo: la farò da quel che sono. Ingenòcchiati, raccomanda l’anima a Dio.
Trasimaco. E che, mi vuoi ammazzare?
Gulone. Tu sei indovino.
Trasimaco. Se fussi indovino, non sarei venuto a questo termine: almeno fammi una grazia, fammi viver due ore sole.
Gulone. Perché due ore?
Trasimaco. Che mi mangi quello apparecchio che avea fatto in casa per te; e, dopo mangiato, fammi morire, che morrò contento.
Gulone. Che apparecchio era il tuo?
Trasimaco. Una porchetta con una crustina sopra, che, masticandola, ti stride sotto i denti, poi si dilegua in latte in bocca; un pasticciotto di ostreghe boglite nel lor medesimo umore, che fanno a lor stesse un intingolo suavissimo, con certi aromati che ti fanno trasecolar la gola; un tegame di beccafighi con lardo e presciutto e cime tenere di zucche, di cui l’odore