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atto secondo | 31 |
Gulone. E tu non sai l’usanza mia?
Trinca. Non mi ricordo.
Gulone. M’è venuta una disgrazia, la maggior che mi possa venire.
Trinca. Dimmela, se non è cosa di stato.
Gulone. Mi muoio della maladetta fame: io son venuto a sguazzare col tuo padrone.
Trinca. Sguazzarai come un cavallo per un pantano: il mio padrone sta irato teco.
Gulone. Scusa di mal pagatore: perché l’ho maritata la figlia, per non darmi la mancia, finge il colerico. Questo è il frutto dell’obligo? Va’ e stenta tu. Io vo’ che mi faccia il beveraggio bonissimo.
Trinca. Ha promesso farti buttar in un fiume, ché beva benissimo.
Gulone. Che ha egli meco?
Trinca. Essendosi informato del capitano, ha ritrovato tutto il contrario di quanto gli hai detto; e se avesse fatto il matrimonio sotto la tua parola, arebbe annegata la figlia. Hai torto ingannarlo cosí.
Gulone. Come egli ha ingannato me, cosí ho ingannato lui.
Trinca. Non sai tu ch’egli sostiene quelle sue grandezze con l’ombra delle bugie e con falsa fama? E il peggio è, che hai detto mal di lui al capitano...
Gulone. Possa digiunar un mese, se è vero.
Trinca. Giurane su questa orecchia d’asino!
Gulone. Ho sempre dubitato che fussi un asino; ma or che me ne mostri l’orecchio, ti stimerò tale da oggi avanti.
Trinca. ... Con dir che ti fa seder in un tavolino, e ti pone inanzi certe minestrine, certe insalate ricamate e gelatine figurate, e certe torte e bistorte, la carne minuzzata, le cose mal ordinate e cotte.
Gulone. Trinca, è vero che ho detto che non posso aver peggio, quando le cose non son bene apparecchiate, ché il buon apparecchio è il quinto elemento della tavola; e che le robbe sieno assassinate dal cuoco, quando non vedo pasticcioni,