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364 la tabernaria


Tedesco. De cheste bugie noi avere grande abbondanzie e le vendemo a bon mercato, anzi per nulla. Noi altre tedesche avere gran privilege fare quanto piacere a nui, poi dire che stare imbriache.

Cappio. Bisognarebbe, padrone, che fusse bene informato di quel che è passato con l’altro tedesco, acciò le risposte fossero conforme alle domande.

Giacomino. Dici bene, però restati con queste signore e avvisa di tutto quello che passò nella nostra taberna; e io andrò a trovar un amico che finga Limoforo. Son vostro, anima mia.

Altilia. Cor mio, non fate che, lontana dagli occhi, resti sepolta nell’oblivione.

Giacomino. Voi sète piú viva nell’anima mia che non ci è l’anima istessa. Sparito è il mio sole, il mondo è in tenebre: come andrò dove debbo, senza occhi e senza luce?

SCENA IV.

Limoforo, Lardone, Pedante, Antifilo.

Limoforo. Dimmi, Lardone, minutamente e veramente il fatto come è andato, ch’esser non può che tu non abbi tenuto le mani in questa pasta.

Antifilo. Comincia a narrar il fatto per lo filo.

Lardone. Se mi perdonate un fallo che ho commesso in questo fatto, strassinato dalla gola, vi spianare il tutto in due parole.

Limoforo. Se dici il vero, ti sará perdonato.

Lardone. E che sicurtá me ne date?

Antifilo. Io sarò il tuo mallevadore.

Pedante. Ed io il tuo fideiussore.

Lardone. Se bene il gastigo che merito saria molto, pur perché non è altro che una burla, merito piú liberamente il perdono. Giacomino, mentre studiò leggi in Salerno, amò saldamente e onestissimamente Altilia sua figliuola, desiderandola piú tosto per sua sposa che per amore; e volendo andare il mio padrone in Roma, quando passava per Napoli, mi commandò