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atto terzo | 357 |
Pedante. Obsecro te dalla base del cuore venerabondo, e revoluto a’ tuoi piedi, accetto la grazia che la necessitá me la fa accettare, e me ne congratulo.
Lardone. Io per dubito di non aver a restar senza cena e senza sonno, ero quasi morto.
Pedante. Tu non hai mangiato e bevuto tanto questa mattina?
Lardone. Quello è giá digesto.
Limoforo. Perché andar disperso a quest’ora?
Pedante. Lo saprete a bell’aggio in casa, ch’or sto «in cimbalis male sonantibus», che per disperazione volea buttarmi in un sarcofago.
Limoforo. Entriamo, ché la porta è aperta.
Lardone. Questo incontro a un par mio? Quando io sperava questa notte empirmi lo stomaco a scorpacciate da taverna e scacciarmi la sete a salassate de bótti, mi trovo martorizzato dalla fame e abbrugiato dalla sete. Ah, Giacomino e Cappio, cosí m’avete tradito? M’avete talmente guasto lo stomaco che non basteranno quanti impiastri e medicine ha una speziaria a ristorarmelo; ma io non sarò tanto goffo che mi lasci morir di fame dentro un forno di pane né di sete in un magazzino di vino. Scoprirò il fatto ad Antifilo; e la gelosia l’infiammerá talmente alla vendetta che vedrò fulminar le spade su gli occhi e i pugnali su le gole fra loro. Scommodando gli amori di Giacomino, accommodarò il mio stomaco. Devo io osservar fede a chi mi manca di fede? Io intanto apparecchiarò le scuse e le gambe per sfrattar la campagna, e al peggio le spalle alle bastonate. Vuo’ piú tosto morir satollo e da forfante che morirmi di fame e da uomo da bene.