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atto terzo | 349 |
Giacoco. Mienti pe la gola, ca nui non arrobbammo. O povero Iacoco, dove si’ arreddutto! Tu mi faressi venire li parasisimi.
Pedante. Ecco mi trovo afflitto da tante contumelie; sed «patienter ferre memento». O l’aria di Napoli è tanto ottusa che ottunde gli anfratti auriculari che non vogliono intendere, overo hanno qualche cacademone nel capo.
Giacoco. È lo vero che tu hai no demonio che te caca nduosso; e se me ntrattengo troppo con tico, che quarcuno non cache ncuollo a mene. Se si’ spiritato, fatte nciarmare.
Pedante. Me Dius fidius, che io dubito non avere scambiato la casa. Ecco quella domuncula che minitava ruina, ecco il caprifico nel muro; veramente che questo è il diversorio.
Giacoco. Lo guae che te attocca, qua non ci è diverso olio né diverso aceto, né manco c’è alluorgio che suoni diverse ore; non me buoglio scelevrar chiú con tico.
Pedante. Questo era il Cerriglio; e qualche diavolo l’averá fatto trasmutare in casa.
Lardone. Andiancene, padrone, ché quello medesimo negromante queste parole non le facci diventare tante bastonate, come ha fatto diventare pur quei fegadelli e salsicce. (Oimè, che tutta questa negromanzia caderá sopra di me! Giacomino s’ara goduta Altilia, Cappio Lima, e s’averanno divorato tutto l’apparecchio, che io, che son stato il mezano del tutto, resto senza mangiare e senza dormire. O salsicce, come mi sète fuggite da bocca; o vini, dove sète abissati! Son diventato un Tantalo, che il mangiar gli sta sopra il naso e il vino sotto le labbra, e quando vuole, il mangiare fugge e cosí il bere).
Giacoco. Olá, casa mia è deventata Cerriglio, o lo Cerriglio è deventato la casa mia; o io so diventato lo tavernaro dello Cerriglio, o lo tavernaro dello Cerriglio è deventato me. Chesta è cosa proprio da crepare e ridere; mai m’è accaduto cosa ntutto lo tiempo della vita mia commo chesta d’oie.
Pedante. Lardone, che mastichi in bocca?
Lardone. Mastico quelli fegadelli, salsicce e pastoni che mi son fuggiti dalla bocca.