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atto terzo 345


Cappio. E se ci affatica con tanto gusto che non lo lascia mai, se non va tutto in sudore; e se voi non l’aveste interrotto, non avrebbe fatto altro tutta la notte.

Giacomino. Chi è lá, dico?

Cappio. Calate giú, ché vostro padre è tornato da Posilipo.

Giacomino. Vuoi burlarmi?

Cappio. Venete e vedete.

Giacomino. Ora chissi so figli che non vanno dereto alle femine guaguine, squaltrine, chiarchiolle, zandragliose; né de chissi nnamorati che fanno taverne, ma stanno ammolati a rasulo sopra libri fin che se ci arreieno.

Cappio. Avertite che lo troppo studio non li disecchi il cervello.

Giacoco. Batti, dico.

Cappio. Sento i pantofoli per li gradi, che vien giú.

Giacomino. Ben trovato, mio padre! sète venuto molto desiderato.

Cappio. (Anzi lo mal venuto, che non ha potuto venire a peggior tempo).

Giacomino. Come a quest’ora?

Giacoco. Te lo diraggio suso, ca mò sto allancato de fatica.

SCENA VI.

Spagnolo, Giacomino, Giacoco, Cappio.

Spagnolo. Padron, dame mis alforjas, que he dejado en esta venta.

Giacoco. Che grassa de suvaro è chesta? ca vole sso messer catruoppolo, barva d’annecchia, dalla casa mia?

Spagnolo. Está tarde, llegué á esta venta y dejé aquí mis alforjas.

Giacoco. Dice ca lassai cca le forge dello naso e che la casa mia è viento: chesta è cosa da me fare desperare.

Cappio. Certo, che deve stare imbriaco.

Giacoco. E tu cacciale ssa mbriachezza da capo.