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atto quinto 301

Questi a me, che son Gerasto, ha dato ad intendere che sia Narticoforo; a costui, che sia me; ad un servo, per tòrli certe vesti, l’ha fatto credere ch’era un dottor di legge; or per iscampar dal periglio dove si trova, dice che è tuo fratello.

Panurgo. Non si chiamò mia moglie Zenobia? né ti raccomandai questo figlio di duo anni, piangendo in braccia, quando partimmi?

Apollione. Questo che dice è vero, e a me par mio fratello.

Panurgo. Non hai tu un segnale nella schena, ché avendoti in braccio, quando era piccino, ti fei cadere e percotere in una pietra aguzza, di che giacesti duo mesi in letto e ancor ne devi aver la cicatrice?

Apollione. Questo è mio fratellissimo. O fratello ricercato e desiderato!

Narticoforo. Può esser che tu voglia essere cosí credulo?

Apollione. Chi non è uso a mentire, crede ogniun che dica il vero. Ma io tocco la veritá con le mani.

Narticoforo. Io non posso imaginarmi uomo piú perfidioso di te: questi è un «doli fabricator Epeus», è un altro Ulisse che fece il cavallo igneo per prender Troia. Tu ne sei stato admonito prima, che persuade a ciascun che sia lui.

Apollione. Amici, mi ha dati certi segni che non può saperli altri che lui.

Gerasto. Sappiate che tiene le spie per tutte l’osterie, per star informato de’ fatti di ciascuno e persuadergli quello che vuole.

Panurgo. Ed è possibile, Apollione mio, fratello, che vogli prestar piú fede a costoro che all’istessa veritade?

Apollione. Amici, la forza del sangue è cosí grande che si fa conoscere da se stessa: io mi sento tutto il sangue commosso.

Narticoforo. Ancor potrebbe esser vero quel che dice, e noi non cel crediamo. Questo acquista chi è uso a mentire: che dicendo il vero non gli è creduto. «Qui semel malus, semper praesumitur malus in eodem genere mali».

Apollione. Questi è veramente mio fratello; né fu tanta la pena che ho sentito in questa sua assenza, che non sia maggior