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284 la fantesca

conoscendovi; poi, m’ave inviato un giovane, che questi diceva mal di me: ed è stato cagion, penso, d’azzuffarci insieme.

Facio. Che si fará dunque delle mie vesti?

Gerasto. Io arò pensiero di ricovrarle da lui, inviarvele in vostra casa; ché se ben egli ingannandovi ve l’ha promesse da mia parte, or che stimo lui un tristo, ve le prometto da senno, che vo’ un poco informarmi del tutto.

Facio. Dunque io vi cerco perdono se sono troppo con voi trascorso in parole.

Gerasto. Dove è Cintio vostro figliuolo?

Narticoforo. L’ho lasciato nel diversorio. Io nol condussi meco, perché il mio servo mi referí che voi l’avevate extruso di casa, con dirgli che Narticoforo era prima giunto.

Gerasto. Inviate a chiamarlo. Questa è vostra casa, ché in vostro nome colui se n’era fatto possessore.

Narticoforo. Ed io per tal la reputo. Vale.

Facio. Oh, povere vesti perse due volte!

Gerasto. Non dubitate, venite di qua e l’arete. Ma chi piglia i fastidi per fastidi, entra in un mar di fastidi; però non vorrei io tanto ingolfarmi in questi fastidi, che lasciassi passar l’occasione che ho desiderata mille anni. Fioretta m’ha promesso aspettarmi in questa camera, e giá due ore sono: deve star a disagio. O me felice, or corrò il frutto tanto desiderato! Ma qui non è niuno. Ella è vergine e si deve vergognare venir da lei; e se ben muore per me, la vergogna la fa restia. In somma, se non ci la conduco per forza, non verrá da lei giamai. Io ho questi amici, la farò tor per forza e menar qui dentro; ma mi meraviglio che lo speciale non v’ha condotti quei lattovari che l’ho fatti far per trovarmi gagliardo con Fioretta. Ma eccola dinanzi la porta: o voi, prendetela e di peso menatela in questa camera terrena.