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atto quarto 279


Facio. Error pigli tu, se pensi che voglia pagar il mio.

Panurgo. Fermatevi, non m’usate forza.

Facio. È lecito usar forza a tòrre il suo dove si trova.

Panurgo. Voi forse pensate che sia una bestia?

Facio. Bestie stimaresti tu noi, se ti lasciassimo la robba nostra.

Panurgo. Tanto fusse tua la vita! Ma ascoltate.

Facio. Che vuoi che ascolti? Pelamatti, pela tu questo matto, toglili le vesti; e se non si lascia pelare, peliamolo a pugni.

Pelamatti. Lascia, ladro assassino!

Panurgo. Voi mi spogliate in mezzo la strada e mi chiamate ladro assassino.

Gerasto. Mira con quanta prosonzione costoro lo trattano male!

Narticoforo. Devono esser genti senza vergogna o non lo devono conoscere o l’aran preso in cambio.

Panurgo. Ah, ah, ah! or m’accorgo che tutti e tre siamo ingannati. Ascoltate. I giorni a dietro da maestro Rampino mi feci far certe vesti da dottore; e aspettando questa mattina le vesti, vedo questo giovane che le portava sotto. Dimando: — Di chi sono? — mi risponde: — Di Facio. — Io che mi chiamo Famazio, pensai subito che avesse smenticato il nome, ché sono simili Fazio e Famazio; e me le presi per mie. Ma or che m’avveggio, avea fatto un bel guadagno! ché dove il mio panno è finissimo e val dieci scudi la canna, questo appena val cinque. Ma per mostrar che son gentiluomo, andrò a maestro Rampino e gli dirò che vi dia le mie vesti per tutto oggi — ch’or mi rincresce spogliarmi, — e fra tanto vi darò trenta scudi in pegno, dove queste non vagliono quindici.

Facio. (Pelamatti, tu hai fatto contro il tuo nome: ti pensavi pelar un matto e pelavi un savio). Datemi gli trenta scudi in pegno per tutto oggi, e mi contento; delle vostre vesti io non me ne curo altrimenti.

Panurgo. Conoscete voi quel medico?

Facio. Conosco benissimo.

Panurgo. Vi contentate ch’egli ve gli dii per me?