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atto quarto 277


Gerasto. Signor Narticoforo, di grazia, dite, chi sète voi?

Narticoforo. Signor Gerasto, di grazia, dite, chi sète voi?

Panurgo. Desidererei saper ben prima da voi: sapete chi sia io?

Gerasto. Io lo so bene.

Narticoforo. Ed io ancora mi penso saperlo quam optume.

Panurgo. Dunque, se lo sapete, perché me lo dimandate?

Gerasto. Lo dimando per sapere se sei me.

Narticoforo. Ed io ancora flagito, posco, peto, rogo saper se sei me.

Panurgo. Con una risposta sodisfarò ad ambiduo. Io essendo me, non posso essere né te né lui.

Gerasto. La differenza che avemo fra noi, è se siate me o lui.

Narticoforo. Sí bene, non desidero saper altro se non se sète lui o me.

Panurgo. Diavolo, fammi essere altro se non che io.

Gerasto. Questo sappiamo bene; noi disiamo sapere voi chi sète.

Narticoforo. E per questo vi dimandiamo: voi chi sète?

Panurgo. Io son io, né posso esser altro che io.

Narticoforo. (Questi m’ave ottuso e retuso il cervello e postomi in tanta ambage che omai non so discernere se io sia io o un altro). Se tu sei me, io non posso esser io; e se io non son io, sarò un altro; e quello chi è o chi fu? Se tu non vuoi dirci io chi sia né costui né tu stesso, dicci almeno, chi sei di noi duo?

Gerasto. Di grazia, fatene questo piacere, chi sei di noi duo?

Panurgo. V’ho detto dieci volte ch’io son io e voi sète voi, né io posso essere alcun di voi.

Narticoforo. Oh, non posso far rispondere costui ad petita! Volgeti a me, parlami sine perplexitate: sei Gerasto come hai detto a me, o Narticoforo come hai detto a costui?

Panurgo. Mira con che arroganza mi parla! hai tu qualche imperio sovra di me, che sia forzato a dirti io chi sia? Io son chi piace essere a me.