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atto terzo | 257 |
Essandro. Vien qua tu: conosci costui chi sia?
Granchio. Nol conosco né il viddi pur una volta.
Essandro. Se non mi dici chi sei, ti passerò questa spada per i fianchi.
Narticoforo. Saltem, annunciatemi, in che v’ha egli offeso?
Essandro. Non si vergogna questo pedante pedantissimo, feccia di pedanti, voler fare una mia cugina per moglie al suo figliuolo. Siamo dieci nipoti congiurati insieme di ammazzarlo, perché l’abbiamo promessa maritare con un nostro parente, e ci va la vita di tutti; e noi per non essere uccisi tutti, vogliamo uccider lui.
Narticoforo. Quid igitur faciendum?
Essandro. Fuggir subito da questa cittá.
Narticoforo. Lubenter faciam: non mi darete voi tempo ad colligendum sarcinulas?
Essandro. Abbi mezza ora di tempo. E se per disgrazia dirai nulla di ciò che ti ho detto a Gerasto, guai a te! il pezzo maggior sará l’orecchia.
Narticoforo. Mi partirò adesso adesso.
Essandro. Verremo insino a Roma ad ucciderti: non so io che abiti vicino al Culiseo?
Narticoforo. Non certo; alla Rotonda, sí.
Essandro. Cosí prometti, fa’ che l’attendi, se non..., misero te! (Io mi tratterrò da qui intorno per far un’altra bravata a Gerasto che, cosí vestito da maschio, non será per conoscermi).
SCENA XII.
Speziale, Panurgo, Morfeo.
Speziale. (Veggio un uomo innanzi la porta di Gerasto). Gentiluomo, qui m’invia Gerasto medico, che facci un serviggiale ad un forastiero ammalato. Se sete di casa, mi sapreste insegnar dove abbiti?
Panurgo. Entra in questa camera terrena, presso la scala, che lo troverai giacente infermo. Di grazia, disponetelo prima con belle parole, poi fate l’ufficio vostro.