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atto terzo 255

sia entrata e ventilata quest’aria rimasta infetta per il suo apparire. Avete visto mia figlia? Or vedete, da cosí bella giovane qual era, la violenza del morbo a che l’ha ridotta e come l’ha contrafatta!

Narticoforo. Che sfinge, che arpia, che Medusa con la testa crinita di serpenti!

Panurgo. Assai piú difforme è quello che cuopre la gonna, che quello che appar di fuori.

Narticoforo. Uhá, uhá, che orribil putore che vi ha lasciato: par che sia un putrido cadavere! O che pettuscolo niveo dove sta spaziando Venere con gli Amori! Ma io dubito, Gerasto, che non vogliate ludificarmi; e poiché voi la volete romper meco, io la romperò vosco. Queste non son cose di viro probo, trattar cose di onore e venir meno della parola. Io mi armerò di iambi e di endecasillabi; narrerò lo fatto in modo che la presente e la futura etade non ignori questo facinore: durerá col tempo, ché si leggeranno per i trivi publichi e per i triclini.

Panurgo. Fate quel che vi piace: non so che farvi. Perdonatemi, ho da fare a casa.

SCENA XI.

Essandro, Narticoforo, Granchio.

Essandro. (Eccolo, mi sforzerò spaventarlo talmente che sgombri questa cittá). Deh, se posso trovar uomo che me lo facci conoscere, se non il farò pentire d’aver posto piede in Napoli, voglio essere sbranato in mille parti!

Narticoforo.

Granchio, questi è un troiúgeno Ettore o un Aiace flagellifero!).

Granchio. (Ascoltiamo che dice).

Essandro. Ancora che fusse in mezzo un essercito de nemici, farò tal scempio di lui che non vo’ che lasci segno alcuno