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254 la fantesca

alla porta o toccar queste mura, vi viene adosso la medema infirmitade: onde mi dispero di non potervi onorare, come è mio debito, meno di un becchier d’acqua. Ma farò che Cleria mia venghi giú, su la porta. O di casa, fate calar Cleria mia figlia; e recate un poco d’aceto per unger le mani, acciò il tufo e l’aria appestata non infetti questi gentiluomini.

Narticoforo. Gerasto caro, accioché sappiate chi sia io, io son quello che ho commentato il Bellum grammaticale, la Priapeia di Virgilio; ridotte in compendio le Regole di Mancinello e del Valla; enucleati sensi profundissimi, reconditissimi e abstrusissimi di Prisciano; fatte postille e scòli alle Epistole di Cicerone: talché vòlito per ora virorum e per tutte le scole si parla di me. Ricordative che voi mi proponeste questo partito e io era piú avido rifiutarlo che accettarlo, ché alla mia prole non mancano matrimoni nella sua patria. Ma voi tanto mi sollecitaste e mi postulaste con iterati internunzi e chirografi, che mi facesti cadere; e or con le parole non s’accordano i fatti.

SCENA X.

Morfeo, Panurgo, Narticoforo, Granchio.

Morfeo. Che volete, pa... pa... padre caro?

Panurgo. Narticoforo caro, eccovi un poco di aceto, ungetevi le nari, togliete questa balla di profumi.

Narticoforo. O mi Deus, o Iuppiter, che mostro è questo? mi incute terrore!

Panurgo. Ecco, vedetela, miratela a vostra posta.

Granchio. A me ha fatto passar la voglia di mangiare.

Panurgo. Camina qua, Cleria mia.

Morfeo. No, no po... posso, pa... padre mio.

Panurgo. Orsú, entra in casa.

Morfeo. Vo... volete altro, pa... padre caro?

Panurgo. Non altro, figlia, coltello di questo cuore; va’ e còrcati. Non togliete, di grazia, la balla dal naso, finché non