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atto terzo 253

Gallinaria siamo venuti a Puteoli, detta cosí «a putore vel a puteorum multitudine» .

Panurgo. Ed io ho inviato una posta tre giorni sono per la via di Aversa e di Capua.

Narticoforo. Non mi potrete dar voi Ersilia, l’altra figlia? che parvi? refert sia l’una o l’altra, anzi mi piace piú di Cleria per non essere tanto formosa.

Panurgo. Piacesse a Dio che fusse viva, che saressimo fuora di questi intrighi! sono piú di quattro mesi che si morio.

Narticoforo. Voi non me ne avete fatto parola mai.

Panurgo. Non mi parea convenevole, trattando di matrimoni e allegrezze, mescolarvi con augúri di morti.

Narticoforo. Io non parlo sine ratione; ché — avendomi voi interpellato la lezione, ché la mattina leggeva lo sesto di Virgilio con commune applauso degli audienti, e la sera le Regole di Mancinello; e fattomi profugo da’ regni latini — dalla cittá romulea son venuto qui in Palepoli seu Neapoli con auspici di copular un mio figlio in matrimonio; e ragionandosi di ciò tra consanguinei e amici in Roma — ché per la Dio mercé vi siamo di qualche conto — e or tornando alla patria senza la nuora, pensaranno qualche cosa cattiva di me o del mio figliuolo, ché le genti sono piú acconcie a credere il male che il bene. Però mi reduco genuflexo a deprecarvene.

Panurgo. Padron mio caro, non saprei che fare per rimediarci.

Narticoforo. Geraste carissime, se forse accipiendo informazione di me o del mio figliuolo, avete inteso qualche cosa che vi spiace — perché si trovano genti che multa dicunt, — o forse la dote è troppa o la mia supellettile è poca, ditelo alla libera, ché potremo rimediare al tutto.

Panurgo. Il parentado è cosí buono ch’io nol merito, la dote posso facilmente pagarla e giá i dinari erano in banco.

Narticoforo. Non potrei io entrar in casa e veder questa vostra figlia cosí abrosa?

Panurgo. Io non posso farvi intrare in casa mia, ché per esservi dentro la peste, come vi ho detto, con accostarvi solo