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252 la fantesca


Narticoforo. Mi scrivevate aver i piedi obsessi da nodose podagre; or veggio che gli avete scarni e delicatuli.

Panurgo. Scherzava cosí con voi, intendeva per le podagre due figlie che aveva da maritare.

Narticoforo. Oh lepidum caput!

Panurgo. Ma sia come si vogli, son al vostro comando.

Narticoforo. Ecco son venuto a tòrvi questa podagra e addossarla al mio figliuolo.

Panurgo. Di questo mi doglio ben, che v’abbiate tolto invano questo travaglio.

Narticoforo. Igitur, ergo, dunque col mio solo figliuolo si potevano far queste nozze?

Panurgo. Voi non sapete che voglia inferire?

Narticoforo. Nol posso ariolare, se non lo dite prima.

Panurgo. Dico che mi dispiace che siate venuto in Napoli, non potendosi piú effettuare questo matrimonio.

Narticoforo. La cagione?

Panurgo. I giorni a dietro, medicando lo spedale degli Incurabili, o fusse l’aria infetta di quel luogo o qualche occulta specie di peste, come tengo ben fermo, mi prese tutto e mi venne un spedal di malattie adosso. Questa mia figlia mi serviva a medicarmi e a mutarmi gli empiastri; fra pochi giorni, le venne la medema infirmitá e dal bellico in giú l’ha tutta rósa e divorata, che non può piú servir per femina. E di piú, le è discesa una ernia di sotto, che è piú tosto un mostro che umana creatura; e ogni cosa che tocca infetta della medema peste. A me il male ha profundato le parti di dietro, e sono incancherite. Onde la poveretta non bisogna che piú si mariti, ma che si muoia in casa overo in un monistero, benché sian brevi i giorni suoi.

Narticoforo. Perché prima che mi fusse accinto a questo itinere, non mi avete reso cerziore di questo fatto?

Panurgo. Che strada avete voi fatta al venire?

Narticoforo. Dal Garigliano abbiam attraversata la via e venuti per Linterno, dove Scipio piangendo l’ingratitudine della patria commutò la vita con la morte. Poi, per la silva