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animo valoroso, suol convertirsi in buona. Se vincerò questi perigli, l’ardir sia degno d’eterna lode. O felici miei pensieri, se a tanta gloria giungerete. Ma se mi riesce contraria, io non so se la morte sará bastante rimedio a tanti mali.
SCENA VI.
Panurgo, Morfeo, Essandro.
Panurgo. Viva, viva, il fatto è riuscito assai meglio che pensavamo! Infin quella invenzione ha valuto un tesoro.
Morfeo. Largo, largo, scostatevi da me, ché con le corna non vi balzi nell’aria!
Essandro. Che cosa hai, Morfeo mio dolce?
Morfeo. Son stato in casa tanto alla mira, e m’accorsi Nepita riponere una testa di vitella cotta. Senza esser visto, l’ho rubbata e ingoiata che non ne trovará un osso. Accostatevi, ascoltate che mugghie: oha, oha.
Essandro. Bene.
Morfeo. In casa son molte robbe e s’apparecchia un banchetto da re, il tutto è in ordine, e tra poco saremo chiamati a tavola.
Panurgo. Padrone, voi state mezzo morto.
Essandro. E l’altro mezzo assai peggio che vivo, anzi son morto tutto, e non ci è altro di vivo che il core, capace e pieno d’infiniti dolori.
Morfeo. Siete forse stato in cucina, che il fumo vi fa piangere?
Essandro. Voi ridete, ché non avete ancora inteso il vostro male.
Panurgo. M’uccidete tacendo.
Essandro. Vuoi farmi un piacere, e te n’arò molto obligo?
Panurgo. Voglio.
Essandro. Ammazzami.
Panurgo. E se v’ammazzo, quando mi pagherete l’obligo?
Essandro. Quando resuscitaremo.