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atto terzo | 241 |
Gerasto. Della mia; e se ben è vecchio, è di forza piú d’un giovane.
Essandro. Di che fattezze?
Gerasto. Come le mie: io e quello siamo come una cosa medema. Conoscilo adesso?
Essandro. A questo marito gli sono serva indegna.
Gerasto. O come mi terrei felice se queste parole ti uscissero dal core!
Essandro. Fa’ prova di questa mia volontá.
Gerasto. Su, mano a’ fatti, ché la buona volontá senza l’opere non val nulla. Entriamo in casa in quella camera oscura.
Essandro. Non posso adesso.
Gerasto. Quando le donne non vogliono, dicono non possono.
Essandro. Or sapete che la padrona sta gelosa di noi e ci tien sempre gli occhi sopra?
Gerasto. Tu dici bene; ma andiamo in questa camera vicina, ch’io ne ho la chiave.
Essandro. Questo sí, entrate e serratevi dietro bene, ché verrò or ora a ritrovarvi.
Gerasto. Perché non adesso?
Essandro. Darò un’occhiatina per la casa, vedrò che facci la padrona, mi farò vedere, e me ne vengo.
Gerasto. Bene. Io tra tanto me ne andrò volando per una facenda: chi arriva primo, aspetti.
Essandro. Benissimo.
Gerasto. Non mi darai tu un’arra della tua bona volontá?
Essandro. Eccola. Tornate presto e serratevi dentro; e quando io batto, aprite tosto.
Gerasto. Vado.
Essandro. Io era disperato del tutto; ché, venendo adesso Narticoforo ed incontrandosi con lui, il fatto era spacciato per me. Egli pensandosi che vada a trovarlo, stará tutto oggi dentro; tra tanto con Panurgo pensaremo alcun rimedio. Poiché la fortuna mi stringe troppo, bisognano prestissimi rimedi. Né vo’ perdermi d’animo, ché la cattiva sorte sopportata con