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atto terzo | 237 |
aggrava qui alcuno accidente, exalará l’anima. Onde exoptarei che decumbesse in un lettulo e vi si riposasse paulisper, e li facessimo qualche rimedio; e domane all’alba ambulassimo patriam versus.
Gerasto. Io gli ordinarò or ora un serviggiale, e per oggi gli faremo far dieta, che gli sará utile, ché per domani stará meglio.
Morfeo. Padre ca... ca... ...aro, quella lupa che mi ha roso la ca... ca... carne, mi è rimasta in corpo, e mi dá tanta fame che non vorrei far altro che ma... mangiare e ca... ca... caminare.
Gerasto. Voi dovete esser molto stracco del viaggio.
Panurgo. Io ho avuto una bestia sotto che pareva un Pegaseo, un Bellerofonte, ma poi quadrupedando e cespitando non si poteva movere: dálli, dálli tutto il giorno, talché per poter compir il mio viaggio son stato sforzato smontare a terra e menarmela a mano come un figliuolo.
Gerasto. Tutte queste rozze che si prestano a vettura, sono cosí stracche e piene di guidaleschi che ti cascano sotto dieci volte per ora. Che farem dunque di questo matrimonio?
Panurgo. Carissime germane, poiché per reiterate epistole trattammo questo matrimonio, venuti ad summum conclusionis, gli venne questa egritudine.
Gerasto. Non me ne potevate avisar prima che tòrvi questo travaglio?
Panurgo. Immo saepicule ve ne resi cerziore; e dubitando che voi non mi stimaste pentito dell’appuntamento, come viro probo, per mantenervi la parola — nam «verbo, ligant homines, taurorum cornua funes» — ve l’ho qui condotto.
Gerasto. Dispiacemi del vostro fastidio. Ma andiamo a riposarci, Narticoforo: questa è vostra casa.
Panurgo. Entrate, di grazia, voi.
Gerasto. Non entrarò io, se voi non entrate prima.
Panurgo. Libenter faciam per obtruncar queste vostre cirimonie napolitane, di che intendo siate uberrimamente ripieni.
Gerasto. Olá, o di casa, condurreti questi gentiluomini in queste stanze terrene.