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atto terzo 235

caduti nella borsa non solo gli intestini, ma tutte le massarizie di casa ancora; accioché sua figlia esca di speranza, che non solo non sará pagata da me di grossi o di doppioni, ma né di un sol picciolo ancora.

Essandro. O Morfeo galante, antivedo la cosa, che riuscirá netta. Entrarò prima e farò con bel modo che Gerasto venghi a ricevervi.

Morfeo. Ricòrdati dirgli che siamo stracchi e affaticati e morti di fame per essermo stati mal trattati nelle osterie, accioché ne proveda benissimo.

Essandro. So che non pensi ad altro.

Morfeo. E se lo sapete, perché farvelo ricordare da me?

Panurgo. Morfeo, ricordati chiamarmi Narticoforo e tu Cintio, e avermi rispetto proprio come ti fusse padre.

Morfeo. Me ne ricordo e straricordo cosí bene che lo potrei ricordare allo ricordo istesso.

Panurgo. Ricordati ancora... .

Morfeo. Non tanti ricordi, ché ad uno che si ricorda, i troppi ricordi lo fanno smenticare; ricorda te stesso, che ne hai piú bisogno di me.

Panurgo. Io che ho caro che la cosa rieschi netta, vo prevedendo tutte le cose che ne ponno fare errare.

Morfeo. Taci e poniti in postura, la porta s’apre, eccolo. Al viso conosco che è terra da piantarvi carote, la preda sará nostra, l’incapparemo al primo.

SCENA II.

Gerasto, Panurgo, Morfeo.

Gerasto. (Quel vecchio, che viene innanzi, certo deve essere Narticoforo; quell’altro storpiato non posso imaginarmi chi sia).

Panurgo. Dopo il secondo vicolo non mi posso ben reminiscere se fusse la terza o la quarta ede.

Gerasto. O Narticoforo carissimo, voi siate il ben venuto per mille volte!