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ATTO III.
SCENA I.
Essandro, Panurgo, Morfeo.
Essandro. Oh, con quanto buon animo vi meno a casa, poiché vi veggio cosí bene adobbati e andar con tanta riputazione che sareste per darlo ad intendere ad altra persona che Gerasto.
Panurgo. Che ti par di questo mio raschiar grave e sputar tondo? che della portatura, delle vesti e de’ guanti? che del caminare? Non ti paiono nati dalla quinta essenza della pedantaria?
Essandro. Non vi manca altro se non che con gli effetti si confaccino i ragionamenti: ché ragionando di cose che non sappiate, gli respondiate con parole tanto sospese e ambigue che si possono adattare ad ogni proposito, e ti lasci cadere alle volte dalla bocca qualche parola allatinata.
Panurgo. Lascia fare a me, che ti farò veder miracoli. Ma che ti par del mio aiutante? non ti ha egli ciera di magnifico?
Essandro. Dimmi, Morfeo, che ballotte son queste che tieni in bocca?
Morfeo. Queste non solo mi servono ché, ponendole in bocca, mi contrafanno il viso; ma son composte di agli pisti, di galbano e di assa fetida ché, come il vecchio s’accosterá per ricevermi, gli farò rutti in faccia tanto puzzolenti che giudicherá essere insopportabili a soffrirsi da sua figlia.
Essandro. La lingua perché cosí di fuori, con gli occhi stralunati che pari un appiccato?
Morfeo. Accioché ogni persona si muova a vomito in guardarmi; ma tutto è una delicatura a par di quello che vo’ mostrarvi. Che vi par della campana che ho tra le gambe?
Essandro. Ah, ah, ah, a che effetto cotesto?
Morfeo. Gli darò ad intendere che per la rottura mi sieno