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atto primo 209

SCENA IV.

Essandro solo.

Essandro. Un poco piú che fusse tardato a partirsi, avrebbe veduto le lacrime ancora, ché non potea piú ritenerle. Fu tanta la doglia che strinse il cuore a questa nuova, che restai tutto conquiso; poi rivenuto e riscaldato, m’andò l’umore agli occhi: sento le lacrime, eccole cader fuora. O Amor, crudelissimo tiranno, prima ch’io conoscessi la libertá, me ne spogliasti; e prima che conoscessi la vita, mi facesti provar le tue morti. Mi vendi le tue brevi gioie, le tue fuggitive dolcezze a mari di lacrime, a milioni di sospiri, a prezzo di lunghi e infiniti affanni. Non mi facesti provar dolcezza mai che non fusse meschiata d’assenzio, né piacere che non vi fusse il veleno sotto. In una sol cosa sei giusto, perché usi sempre ingiustizia. Con false lusinghe ne lievi fin alle stelle, per farci poi conoscere la caduta maggiore: e ché dalla grandezza del bene conoscessi l’infinitá del mio male, dal sommo dell’altezza mi abassi nel fondo de’ fondi della miseria e disperazione. Maladetta sia quella altezza che è sol fatta per precipizio, maladette le tue dolcezze e maladetto sia tu, Amore, che ne le dái! O Cleria, sommo contento dell’anima mia, che farai quando sentirai questa nuova, se pur ami il tuo Essandro quanto dimostri d’amare? Tu meco ti querelerai, meco ti dorrai e da me cercherai consiglio: e io, misero e isconsigliato, che consiglio ti potrò dare? Almeno l’avessi saputo un anno prima, ché a poco a poco mi avessi avezzo a disamarla.

SCENA V.

Panurgo servo, Essandro.

Panurgo. Veggio Essandro di mala voglia. Padron caro, che cosa avete?

Essandro. Oimè, son morto!