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atto primo | 207 |
che nasci a tempo di primavera; ma a suo dispetto la primavera nasce dove tu sei. Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci.
Essandro. Dove avete lasciati i garofoli?
Gerasto. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze.
Essandro. Vo’ partirmi.
Gerasto. Férmati un altro poco. Ti ricordo che non senza cagione ti han posto nome Fioretta, accioché tu ti accorga che questa tua bellezza se ne va come un fiore: la mattina è bello, la sera languido e secco. Or che sei nella primavera, sappilo conoscere, ché presto verrá l’autunno, sfronderai, diverrai secco, e non serai buono né per insalata né per salsa.
Essandro. Che vorresti dir per questo?
Gerasto. Ch’io vorrei essere il tuo orto, piantarti nel mio seno, zapparti ben bene, inaffiarti e farti produrre i piú bei frutti che nascessero giamai. Almeno fussi ape che andasse succhiando quel mele che sta dentro cosí bel fiore. Almeno potessi darli quel che li manca.
Essandro. Ne ho soverchio e m’avanza.
Gerasto. Non dico quel che tu pensi.
Essandro. Né tu pensi quel che dico.
Gerasto. Cosí potessi fartene veder l’esperienza!
Essandro. Cosí io potessi farla vedere a tua figlia!
Gerasto. Che dici di mia figlia?
Essandro. Dico che essendo serva di vostra figlia, mi dovreste amar da padre.
Gerasto. T’amo piú di tuo padre assai, e d’altro amor che non farebbe tuo padre o fratello.
Essandro. Voi dite cose triste, mi fate vergognare: mi vo’ partire.
Gerasto. Férmati, che vo’ darti una buona nuova.
Essandro. È qualche veste questa nuova che volete darmi?
Gerasto. Dico, novella la piú lieta che avesti avuto giamai.