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atto quinto | 187 |
SCENA VI.
Dottore, Isoco.
Dottore. Or dimmi, di quelle cose che mi tolse Galasia, non ne ha serbata alcuna Alcesia per ricordo di suo padre?
Isoco. Sí bene: un anello con una fede scolpita, con certi piccioli diamantini intorno; e certi bracciali d’oro che mia moglie tolse con lei: e se l’ha ella sempre portati su’ diti, e se i corsari non gli han tolti, penso che debba avergli.
Dottore. Dimmi, avea ella mai desiderio di riveder suo padre?
Isoco. Anzi, nel mezo sempre delle sue allegrezze si risentiva e si rattristava, e con certi occulti e nascosti sospiri manifestava il dolor della perdita di suo padre e il desiderio che avea di rivederlo, e per lo piú sempre stava sommersa in una tacita malinconia.
Dottore. Dio cel perdoni! ché m’ha fatto buttar piú lacrime e piú sospiri che non ho peli adosso, non solo ogni volta che mi ricordavo le persone, ma quando io son venuto col pensiero da me stesso. Ma eccola che viene.
Isoco. Questa è Alcesia mia.
SCENA VII.
Melitea, Isoco, Dottore, Pirino, Forca.
Melitea. O padre, non a me di minor riverenza di colui che m’ha generato, perché m’hai nodrita e allevata con tante fatiche e diligenze, oh quanto mi rallegro in vederti, vedendovi a tempo quando meno sperava di rivedervi.
Isoco. O figlia cara — ché all’amore e riverenza che vi porto non so che altro nome chiamarvi, — che mi date tanta allegrezza in vedervi quanto mi deste dispiacere essendomi rapita: o che nobile aspetto, o come anco nelle miserie risplende la maestá della vostra bellezza!