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176 | la carbonaria |
SCENA II.
Raguseo, Mangone, Isoco.
Raguseo. Io non so che hai tu meco né che cerchi da me: che sai tu chi sia io, se questa è la prima volta che pongo il piede in questa terra? e tu come una infernal furia mi persegui!
Mangone. Vo’ che mi restituisca la mia robba, poiché per tuo conto io son stato miseramente assassinato.
Raguseo. O che tu sei infernetichito o devi star ubbriaco, poiché cerchi da un uomo che mai vedesti, che ti restituisca la tua robba.
Mangone. Io non ho visto te, ma sí ben il tuo fattore che, vendutomi un schiavo in tuo nome, m’ha rubbata la schiava mia.
Raguseo. Io non ho fattori, ma disfattori sí bene; e il fattore servo e mastro di casa e padron della nave son io stesso.
Mangone. Tanto è: egli mandatomi da te venne a cercarmi a casa, con dir che volevate tener conto meco di vendere e comprar schiavi.
Raguseo. Come si chiamava quell’uomo?
Mangone. Maltivenga.
Raguseo. Mal ti venga e mille cancheri e mille ruine!
Mangone. E non contento di avermi rubbata la mia schiava, per svillaneggiarmi mi mandasti un presente pieno di furfanterie, con dirmi ch’eran le miglior robbe di Raguggia.
Raguseo. Le robbe di Raguggia son buone: e stimo che le robbe di Napoli, come tu sai, sieno piene di furfantane e di sporchezze; e se tutti i napolitani sono come tu sei, dal cattivo saggio che me ne dái, son uomo da tornarmene in nave or ora, far vela e girmene all’Indie nuove, per non aver a far con simili uomini.
Mangone. Qui in Napoli avemo buona ragione.
Raguseo. A me par che ve ne sia molto poca; perché tu mi richiedi di cose senza ragione, mi molesti con poca ragione e mi provochi a ira con molta ragione.