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atto terzo | 147 |
Filigenio. A te sta il dimandar, a me il rispondere.
Mangone. Trecento scudi.
Filigenio. È troppo.
Mangone. Ducento.
Filigenio. È molto.
Mangone. Centocinquanta.
Filigenio. È caro.
Mangone. Di questo che vi dico ora, non ne torrò un quattrino — ché farei torto a me stesso in dimandarne meno, e voi a darmegli: — cento scudi.
Filigenio. Ed io non vo’ far torto a te che ne dimandi il giusto, né a me che lo conosco, né al merito del schiavo. Eccoti cinquanta scudi: con l’arra che avesti prima, giongono al prezzo che m’hai chiesto.
Mangone. O che allegro cuore! or vadasi ad appiccare chi dice che si trova cosa che allegri il cuore piú dell’oro.
Filigenio. Amor, andiamo a casa.
Melitea. Vi seguo con gran desiderio, né veggio l’ora di giungere.
Filigenio. Mangone, a dio.
Mangone. In buon’ora.
SCENA VII.
Panfago, Mangone, Filace.
Panfago. Padron mio caro, vi rechiamo alcune coselline; se ben poche, l’animo è grande e l’affezione.
Mangone. Queste son di soverchio assai; m’avete qui condotto meza Raguggia: mi bastavano due salcicciotti, un prosciutto per segno di amorevolezza. Filace, conduci cotesti giovani dentro, discaricagli e dágli alcuna ricreazione: ponigli assai robbe e vino innanzi e lasciagli mangiare a lor piacere.
Panfago. Tutto è soverchio, amico caro: basta che bevano una volta per uno. Speditevi tosto.
Mangone. Mentre costoro si ricreano, noi fra tanto ragionaremo delle cose del mondo.