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138 | la carbonaria |
cosí misero e abietto stato, e alfin costretta a morirmi di fame in prigione. Qual será il fine di tanti affanni, se i mali che s’aspettano e mi minacciano, son piú gravi di quelli che si soffriscono? quando osarò sperar dalla fortuna cosa che per me buona sia?).
Filace. Melitea, Mangone ti dá licenza che ti pigli un poco di spasso con veder cantare e ballar questo schiavo.
Melitea. Altro che balli e canzoni mi stanno nel capo!
Pirino. Dio ti salvi, reina di tutte le belle.
Melitea. Io regina? io bella? O con quanta piú ragione mi aresti chiamata la piú miserabile di quante vivono.
Pirino. Mi comandate che balli un ballo e vi canti una canzona? Rispondetemi.
Melitea. Il dolore è cosí impadronito di me, che sto con l’animo tanto lontano da me quanto ti son vicina col corpo.
Pirino.
Deh! mirami, signora mia, |
Ditemi, signora, vi piace il mio ballo e la mia canzona?
Melitea. Mirami in fronte, leggi nel soprascritto: come può capir alcuna consolazione nell’anima mia?
Pirino. Conosco, signora, da certi segni del volto che sète molto tribulata d’amore.
Melitea. Poco è conoscer questo, ché l’ardentissimo foco, quasi un lampo, lo porto impresso nel volto.
Pirino. Noi schiavi di Egitto siamo negromanti; e da spiriti folletti che tenemo nelle caraffine indoviniamo quello che volemo.
Melitea. Sí, eh? orsú, indovina chi amo io?
Pirino. Un giovane che si chiama Pi... Piri... Pirino.
Filace. Che ragionate voi di spiriti?
Melitea. Dice che ha uno spirito folletto nella caraffina, che indovina quel che vuole.
Filace. Par che costui negromantizzi; non vorrei che ti facesse entrar qualche spirito in corpo per forza.