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136 la carbonaria


Mangone. (Questo mi par a proposito per Filigenio: me lo chiese di fattezze simili; mi par bello e proporzionato e ave assai del nobile). Lo schiavo mi piace, secondo il mercato che me ne fate.

Panfago. Il mio padron desia far amicizia con voi, e però non mira al prezzo di cotesto: volendolo in dono per amor suo, ve lo potrete tor liberamente, perché ogni volta che verrá in Napoli, vi riempirá la casa di schiavi, e voi vendendoli poi col vostro commodo, partirete il guadagno.

Mangone. Io non ho desiato altro nella mia vita che un simile incontro: io accetto carissimamente la sua amicizia. Di costui vo’ dar cinquanta scudi, se ben conosco che val piú, e quel piú lo ricevo in dono, accioché egli prenda medesimamente fiducia di servirsi di me, delle mie robbe e della mia vita.

Panfago. Mi contento di quello che voi vi contentate di darmi, cosí il mio padrone desia la vostra amicizia.

Mangone. Eccovi quindici scudi; in casa vi darò gli altri: potrete annoverargli.

Panfago. Credo alla vostra parola.

Mangone. Come si chiama lo schiavo?

Panfago. Amore, padron caro.

Mangone. Di che paese?

Panfago. Di Donnazapi, della provincia di Rabasco.

Mangone. Che nome voi mi dite?

Panfago. Nomi che si usano in Schiavonia.

Mangone. Amor, vien qua, non mi vòi tu servir con amore?

Pirino. Ben sarei discortese e villano, se, voi avendomi comprato con grande amore, non mi disponessi a servirvi con grandissimo amore.

Mangone. Servendomi lealmente, ti terrò da figlio, non da schiavo.

Pirino. Anzi, servendo voi, mi parrá di servire non un padrone, ma mio padre.

Mangone. Sai alcun ballo all’usanza tua?

Pirino. È gran tempo che non l’ho usati; ma però comandandomelo cosí voi, vo’ piú tosto servirvi cosí goffamente come so, che disubedirvi.