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LIBRO TERZO 157

mamente le Persiane frontiere, obbligandosi in pari modo le reali genti a rispettare quelle del Romano impero1.

Qui giunto, mi viene in pensiero di far ritorno alle precedenti cose per indagare se in alcun’epoca i Romani poterono a sè stessi imporre di consegnare altrui il proprio, o comportare la menoma cessione di quanto stati erano possessori. E di vero da quando Lucullo, cacciato dal regno Tigrane e Mitridate, primo fu ad acquistare all’impero le regioni tutte insino all’estremità dell’Armenia, ed anche Nisibi co’ suoi confinanti castelli; da quando Pompeo il Grande, mettendo fine a quelle nobilissime geste colla pace da lui dettata, ne rendè stabile ai Romani il possesso; avvegnaché poi, tornati alle armi i Persiani, Crasso, eletto a pretore con supremo potere, lasciato abbia insino al presente giorno turpe nota d’infamia alle armi Romane, fattosi imprigionare nella battaglia per essere poscia condotto in Persia ed ucciso2. Avvegnachè, ripeto, Antonio mandato in seguito a capitanare l’esercito ed invaghitosi di Cleopatra, per negligenza e pigrizia nel proseguire la guerra,

  1. I Persiani al contrario facevano un ponte per valersene, sottoscritta la pace unitamente alle stipulatevi condizioni, e sedato il turbinio della guerra, a scorrere le campagne e predarne l’affaticato bestiame, ma osservate lor trame scoperte desistettero dal nefando attentato. (Marcellino, lib. XXV). T. S.
  2. Il cui capo, dall’imbusto riciso presso de’ Carri, veniva dai nemici schernito. T. S.