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con quella medesima forza, che ella gli ha con esso noi congiunti, gli costringerà a congiunti con esso noi mantenersi. Perciocchè niuno è più, Serenissimo Principe, che non si renda certo, e che senza alcun dubbio non sappia, che la cupidità dell’imperadore è infinita, e che, come gli scostumati bevitori, fino che il vino dura, non rifinano mai di aver sete, così egli, fino che terra ed imperio da acquistar fia, non si chiamerà sazio nè satollo di torre e di occupare; e però sono sicuri, che con esso lui non si può in alcuna maniera avere insieme pace e stato. Per la qual cosa non debbe aver luogo in noi timore, che i nostri compagni (poichè con loro collegati saremo) ne abbandonino, e con esso lui si pacifichino, e noi lascino in guerra: anzi perocchè non meno che la sua intenziobe, sono le sue arti a tutto il mondo aperte, noi non solo non dobbiamo temere, che le nostre amistà abbiano con lui pace, ma nè tregua ancora nè accordo. Perciocchè troppo chiaro e troppo manifesto è, che le sue tregue pongono giù l’armi, e l’ aperta forza, ma non le insidie e la mala volontà, e che egli non ha prima riposto il ferro, che tratto ha fuori gli inganni. Quante volte, durante la tregua fra lui e il re, ha l’imperadore tentato di ribellare Torino, e l’ altre terre, che si tengono all’ obbedienza di Francia? Quanti