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un paternostro al piccolo Cristo della chiesetta, se la sua pena riusciva ad aver fine.

Ma un po’ di sconforto lo provò ancora nell’accorgersi che la porta dell’oratorio era socchiusa: ne veniva fuori un mormorio di preghiere e quel l’odore d’incenso che imitava il profumo della resina. Egli capì che vi si celebrava la messa: scivolò quindi lungo il muro, fino alla piccola finestra della sagrestia. Era un po’ alta, la finestruola munita di una inferriata in croce; facile però fu all’uomo arrampicarvisi, come già molte volte lo aveva fatto da ragazzo, quando, pur sapendo che nella sagrestia non c’erano che un armadio e due panche, vi guardava dentro cercandovi misteri più profondi di quelili dei boschi intorno.

E ancora gli pare di esserlo, ragazzo agile e selvatico, figlio di cacciatori avventurosi dalla movimentata fantasia, e di trovare finalmente un mistero, grande e terribile nella sua trasparente rivelazione, nella piccola sagrestia dalla quale esce l’odore delle nicchie dei tronchi mescolato a quello dell’incenso che penetra dall’uscio aperto comunicante con l’oratorio. Attraverso quest’uscio si vedeva di scorcio l’altare, con due stelle di candele e, deposto ai piedi del Cristo nero e sanguinante, un piatto di fiori di genziana che pareva colmo di uva violetta.