Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 64 — |
torno alla panchina, sulla quale si è assisa, con tutto il peso solido dei suoi novanta chili, la brava signora Annetta. Ella tiene in mano, come un granchio enorme, l’aragosta grigia che ha ancora qualche guizzo di vita, e la fissa con gli occhi bovini, inquieta pur lei e quasi ansante. Il padrone non fiata; anzi fa il finto tonto, sapendo per esperienza che questo è un ottimo sistema per scongiurare pericoli e minacce.
Non è la prima né la seconda né la trentesima volta che la signora Annetta minaccia di andarsene: egli sa che è un proposito senza fondamento, eppure ogni volta gli desta un occulto terrore; non perché, dati lo stipendio e la cresta abbondante di cui la donna usufruisce, non sia facile sostituirla con un’altra, magari più svelta e piacevole di lei, ma perché ella rappresenta, per il signor Massimo, tutta un’èra di abitudini quotidiane, di piccole gioie, magari anche di tribolazioni, poiché non c’è strada d’uomo priva di sassi e di spine; insomma un’epoca di vita che, andata via lei, si chiuderà melanconicamente e per sempre. Per adesso ella siede ancora accanto a lui, sulla panchina refrigerante, si piega sul grosso corpo caldo in subbuglio e respira forte; ma la minaccia è sulle sue labbra, viene, scoppia calma, sì, ma inesorabile e definitiva: