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novarsi di un miracolo, rivede il sole nel suo più indicibile splendore. È il sole al tramonto, già lievemente roseo, ma ancora con tutti i suoi raggi; e l’anfiteatro immenso delle valli, e le corone dei monti se ne illuminano con una gioia d’aurora. Il treno adesso sfiora appunto la costa di un poggio, soverchiato da altri ed altri poggi ancora, e la donna, che s’è alzata quasi senza accorgersene e drizzata sulle spalle, rivede dal finestrino, sotto i suoi occhi iridescenti, la fantasmagorìa dei versanti coltivati, con radure che sembrano tappeti orientali, e orti sanguinanti di pomidoro, e vigne e distese di grano dorato: ma sopra tutto la incanta la cresta delle chine verdognole ancora sparse di reliquie vulcaniche che l’orafo del tempo ha lavorato come filigrane d’argento.
Fantasmagorìe, sì; poiché alla svolta della strada tutto sparisce: sparisce il sole, l’orizzonte si fa quasi scuro, la valle si ritira e sprofonda dietro le siepi d’acacia della scarpata, e, d’improvviso, a sinistra, sopra la linea ferroviaria, si solleva un paesaggio più che infernale: uno di quei paesaggi che si vedono riprodotti in qualche giornale illustrato popolare, in mezzo all’articolo di un geologo da strapazzo, col titolo, per esempio: «paesaggio del pianeta Sirio».
Nei panorami lunari e in quelli di Marte,