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piedi d’ebrea errante, nudi e tristi nei sandali rotti, che ci costrinse a tirar fuori il borsellino. E il tappeto fu nostro.
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Nostro, sempre più, come l’oggetto di una passione della quale ci si vergogna, e della quale tuttavia si vive. Andò bene per tutta la bella stagione: fu la nostra luna di miele. I colori del tappeto risaltavano sul tavolino da scrivere, davanti alla finestra dello studio di campagna: l’azzurro rispondeva all’azzurro, il verde al verde; quel fondo carneo luminoso alla lucentezza voluttuosa dei lunghi crepuscoli ancora turgidi di calore estivo. E i cuori si dondolavano mollemente, come un festone di pampini, felici delle ultime illusioni giovanili. La rosa era sepolta dal peso e dall’ombra del calamaio, ma pareva vi facesse forza, sotto, perché la penna pescava cose gentili dall’inchiostro torvo.
Di mattina il sole batteva sul tavolino, suscitandovi una diavoleria di lampeggi e colorazioni inverosimili; e il tappeto, a parte la nuvola del calamaio, sembrava lo specchio fedele del quadro della finestra. Av-