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il cuoco versò senza risparmio nel soffritto, calmarono l’invito del fuoco. Sulle ginocchia piegate egli sorvegliava la sua opera, e intanto affettava un grosso pane quadrato, che pareva di pietra pomice e invece si apriva morbido e si sfogliava come un libro. Il coltello a serramanico, aiutato da uno stecco, serviva per rimescolare il sugo, il cui profumo attirava le vespe, subito però respinte dall’alito fumante del fuoco. Allora esse tentarono di assalire un disco di polenta fredda, posato come una torta su una carta pulita; ma l’uomo lo tirò accanto al fuoco, e con un filo più tagliente del coltello cominciò ad affettarlo.

Si accorgeva però che i compagni, già tirata la rete, mentre la scuotevano e la restringevano per i lembi, formando una specie di sacco in fondo al quale si ammucchiava il pesce, stavano insolitamente zitti e preoccupati. Pareva avessero pescato qualche cosa di triste, anzi di funebre: quasi un annegato. E in realtà non avevano pescato niente: niente in proporzione della vastità del loro stomaco vuoto. Infatti, sbattuti sulla sabbia, guizzarono molti granchi e pochi pesciolini che invero avevano l’argento vivo addosso; e, come capi della meschina famiglia, solo due sgombri di platino verdastro, che il pescatore più vecchio, quello mezzo