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più felice. Ricordava con insolita tenerezza la moglie e il grasso bambino, lasciati a casa; ed anche la servetta che gli portava una certa fortuna. Dopo tutto era un buon uomo anche lui, grassone, pancione, che, se aveva dipinto l’arcobaleno fra le nubi, e il riflesso di una stella sul mare, non sdegnava le quaglie coi funghi.

Il padrone, invece, s’immalinconiva sempre più: con gli occhi, dove stagnava un pensiero fisso, guardava solo la groppa del cavallo, aizzando di tanto in tanto la bestia con un grido gutturale, selvaggio, quale il pittore aveva sentito, durante un suo soggiorno in Africa, dagli indigeni del luogo.

Ma il cavallo non meritava di essere aizzato neppure benignamente: volava, e pareva avesse solo due zampe: si fermò di botto in mezzo all’aia, che ricordava anch’essa un tratto di spiaggia marina, affollata di tutto un popolo sbarcato da qualche arca di Noè.

Con beatitudine del pittore, un porcellino nero, con gli occhi e la codina lucidi come gioielli di smalto, corse incontro al cavallo, drizzandosi quasi volesse baciarlo: anche i cani facevano festa, le oche salutavano solenni come grandi dame, e gli anatroccoli in numerose squadre si misero al seguito del padrone che, a dire il vero, gettava loro