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mera fredda, provò un senso di tristezza e quasi di disperazione. S’alzò e volle scrivere a casa sua. Antonio la condusse davanti a uno scrittojo, nella camera della signora Anna, ed ella cominciò la lettera.

«Piove; sono molto triste...»

Ma che, era pazza? Perchè rattristare la sua mamma con delle inutili querele?

— Sono io che l’ho voluto, — pensò, lacerando l’angolo del foglietto. — Chi mi costringeva a cambiare stato, a lasciare la famiglia e la patria? Oramai sono sola. Sola! Anche se mi lamento nessuno può comprendermi.

S’appoggiò allo scrittojo e cominciò a filosofare amaramente.

— Ho diritto di lamentarmi? No. D’altronde ogni lamento è inutile, quando la ragione del malessere è in noi stessi. La mia anima è malata; è un cespuglio strappato dal luogo ove è nato, e ogni piccolo urto la strazia. Perchè lamentarmi? Con chi lamentarmi? A che serve? Nessuna cosa per ora può guarirmi: nemmeno l’amore d’Antonio. La pioggia cesserà; verrà il bel tempo, avrò una casa tutta mia, dove non avrò a subire la compagnia di nessuno: ma allora sarò contenta? E chi lo sa? Ma del resto che importa? Bisogna soltanto accettare la vita come è, e rassegnarsi, e procurare di vivere soli. Io non capisco questa smania che tutti abbiamo della compagnia. Non è possibile viver soli? Non è meglio? Quale miglior compagnia di noi stessi? Del resto, — concluse, — tutto passerà; dobbiamo morire.

Le parve di rassegnarsi, e decise di scrivere ai suoi una lettera piena di pietose menzogne: