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tesse piangere. In quel momento, dopo la tacita confessione di Antonio, mentre tutto si oscurava entro di lei, non per un rapido eclisse, ma per un crepuscolo eterno, — ebbe un ricordo confuso, lontano, tanto lontano che da anni non le era più riapparso alla memoria. Rivedeva dunque un uomo, seduto davanti ad un camino acceso: quest’uomo teneva i gomiti sui ginocchi, il viso fra le mani, e piangeva, mentre una donna si curvava su lui, posandogli una mano sulla testa calva. L’uomo era il padre dissipatore, la donna era la madre paziente di Regina. Era il ricordo di un sogno, o la realtà dell’infanzia ignara, lontana, dimenticata? Ella non sapeva; ma in quel momento nell’ombra del suo spirito parve rosseggiare una luce, quasi il riflesso del camino acceso nello sfondo di quel lontano quadro di errore e di pietà umana.

Ella non pensò di mettere la sua mano sul capo del marito, come la madre la posava sul capo del padre, forse più colpevole di Antonio; ma pensò alla serenità, alla bellezza della vita di quella donna che compiva il suo ciclo come lo devono compiere tutte le donne giuste, fra l’amore dei figli e per amore dei figli. Mai la vedova aveva fatto pesare sui figliuoli i suoi ricordi penosi: se i figli soffrivano, come per legge universale soffrono tutti i nati di donna, il ricordo di lei non aumentava ma leniva il loro dolore.

— Anch’io devo compiere il mio ciclo, — pensò Regina. — Nostra figlia deve ignorare che noi abbiamo sofferto ed errato.

Perdonare, dunque, perdonare più che mai.