Pagina:Deledda - Nostalgie.djvu/300


— 290 —

egualmente se potesse credere... — proruppe Antonio, quasi offeso.

— Lo credo benissimo; ma a tua madre devi pensare tu, non io! Io penso alla mia. Vedi però che anche a Roma bisogna badare alle chiacchiere della gente. Se fossimo noi due soli, in faccia al mondo, a questa bestia graffiante, io me ne riderei. Ma non siamo soli, mio caro. Pensa che Caterina diventerà grande. E se saprà...

Egli allora ebbe un grido quasi selvaggio:

— Se saprà!... Ma che colpa ne ho io?

E Regina sentì ancora una volta l’impressione d’una sassata ricevuta in piena fronte. Sì, se colpa c’era risaliva a lei. Era lei la madre dell’errore che li avvolgeva. Il grido di Antonio era di accusa, non di difesa.

Ma ella si ribellò.

— È vero, — disse, — la colpa non è tutta tua; ma neppure tutta mia.

— E chi ti dice che la colpa è tua?

— Me lo sono detto io mille volte. Non c’è rimprovero che io non mi sia fatto, sai! Quante volte non ho detto a me stessa: «Se io non commettevo la leggerezza che ho commesso, Antonio non si sarebbe sforzato di mutare la nostra posizione: non si sarebbe reso servo di quella donna, non...»

— Tu... te lo sei detto mille volte? — interruppe egli, colpito sopratutto dalle prime parole di Regina. — Vuol dire che da molto tempo pensi a questa cosa? E perchè non me ne hai parlato prima? Perchè, perchè? È questo che voglio sapere!

— Non adirarti ancora, fammi il piacere! —