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Durante qualche passeggiata a ponte Nomentano, o sopra Trastevere, bastava lo splendore d’argento verdastro dell’Aniene o la visione gialla del Tevere, nello sfondo della campagna tutta verde, vellutata e monotona come una musica primitiva, per darle assalti di nostalgia quasi tragici. Ma ora ella riconosceva molto bene la natura di questo malore, il vano anelare verso una patria di sogni forse perduti per sempre.

Eppure ella, amava quelle passeggiate, che un tempo aveva disprezzate chiamandole «la felicità stupida dei piccoli borghesi rassegnati alla loro aurea mediocrità».

Qualche volta, in quei lunghi pomeriggi luminosi, se Antonio aveva proposto una passeggiata al di là della stazione di Trastevere, ella lo raggiungeva alla Borsa, ma il più delle volte andavano a ponte Nomentano; spesso li accompagnava la bimba, tenuta in braccio dalla donna di servizio, e Antonio si divertiva a fingere di rincorrere Caterina. La domestica correva; la bimba sussultava tutta di gioia e trillava come una rondine, rossa per l’emozione di essere inseguita e non raggiunta. Allora Regina restava indietro; guardava il cielo vermiglio dietro le siepi, i prati rosei, le lontananze tranquille, tutto quel grande paesaggio dai profili eguali, monotono e solenne come la vita di un poeta che ha cantato poemi immortali senza aver mai avuto un’avventura, nè mai commesso un errore. E vedendo Antonio correre dietro la bambina, anch’egli tutto vibrante d’una gioia quasi infantile, ella tornava a dubitare di sè stessa.