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comodandosi la farfalla di nastro che le ornava i capelli. — Eppoi si usa così, ora.
— Scusami, no, — disse Massimo. — Le signore dell’aristocrazia sono pettinate come Regina.
— Madame Makuline, forse? — chiese l’altra con ironia.
Regina la fissò. Voleva forse dire qualche cosa, la bella cugina? Sapeva qualche cosa?
Mentre gli altri si disponevano a giuocare alle carte, Regina entrò nella camera da letto che un tempo le era parsa un covo di incubi. Il balcone era aperto e la luna illuminava le tende, proiettando un bagliore argenteo fin sul gran letto bianco; qualche spigolo di mobile aveva riflessi chiari; un odore di garofani profumava il silenzio e la pace di quella grande camera matrimoniale, nido di quieta felicità borghese.
Regina pensò che se Antonio l’avesse condotta a Roma in una sera come quella, e l’avesse introdotta in quella camera illuminata così, quieta e profumata, avvolta nel sogno di una notte di maggio, nulla di quanto era avvenuto avveniva.
S’affacciò al balcone pieno di garofani: la luna passava in un dolce cielo di velluto turchino, lontana e melanconica, lontana e pura, come una vela smarrita nell’immensità di un oceano di sogni. Naturalmente il pensiero di Regina corse alla terrazza in riva al lago d’Albano, dove le rose si sfogliavano e i petali cadevano, simili a farfalle, sulla madreperla iridescente delle acque illuminate dalla luna.
Che faceva Antonio? Era mai possibile che il sogno mostruoso che la premeva, potesse avere