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66 nell'azzurro


All’alba si recò alla polizia. Quando ritornò, Fosca gli porse una lettera giunta allora allora. La giovane signora in quel momento personificava davvero il suo nome: livida in viso, gli occhi appannati, la fronte contratta, pareva la statua della sventura.

La lettera diceva:

«Vostra figlia è sparita, rapita da me. Inutile ricercarla; non la ritroverete mai più. Ella non saprà mai di chi è figlia, e lontanissima da voi, vivrà una vita di miseria e di stenti... Perché mi schiaffeggiaste?...».

Fosca cadde malata: un mese dopo era morta. Il povero Giacomo fu sull’orlo del tremendo abisso del suicidio e forse avrebbe consumato questo delitto se l’idea di vendicarsi, di ritrovare la sua bambina, non lo avesse sostenuto in vita. Anch’egli si ammalò, ma a furia di tempo e di cure guarì e, sulle prime aiutato dalla polizia e dagli amici, poi da solo, col suo denaro e la sua energia, riprese le ricerche.

Ma, come diceva la lettera, tutto fu inutile. Per dieci anni non ritrovò il benché minimo vestigio di sua figlia e del suo rapitore.

Allora stanco, disperato, chinò il capo e per trovare un refrigerio al suo dolore sempre vivo, ritornò, o cercò di ritornare alla sua arte: ma i suoi