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vita silvana 51


l’amavano tanto, e alle quali era lieta di preparare una tazza di caffè; ma pure aveva qualche volta strane melanconie, un infinito desiderio di affetti più forti e di compagnia durevole. Vicino a sé, intorno a sé, avrebbe voluto sentire voci umane, ogni giorno, ogni momento: non le bastava più il mormorio del ruscello, lo stormire delle fronde, il belare del suo gregge e il canto degli uccelli; non le bastavano più, no, quegli indistinti rumori che parevano acquietarsi paurosamente quando il suono delle sue leoneddas e il ritmo bizzarro delle sue poesie risonavano argentini e melanconici. Finiva col ridere graziosamente di queste melanconie, ma esse tornavano sempre, più frequenti a misura che ella cresceva; tanto che quella notte, ripensando alle parole di don Martino, non poteva pigliar sonno e più che mai rimpiangeva il suo stato di bimba sola, senza famiglia e senza villaggio natio. Si ritirò a notte alta, quando la luna splendeva nel mezzo del cielo e sognò la bionda e bianca figura della donna ch’essa chiamava la "sua mamma". Senza parlare, il fantasma le additò un punto lontano: attraverso la nebbia che velava l’orizzonte, Cicytella credé di vedere il maestoso profilo d’una città immensa, bellissima: Roma! Attraverso le tende di una finestra spalancata, di un grande e ricco palazzo, Cicytella vide un signore che dipingeva un quadro: la montagna ove