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162 | nell'azzurro |
tavolino era di legno nero. Franceschino pretendeva che fosse d’ebano, ma un giorno, per una scommessa, io lo raschiai un po’ e sotto la vernice nera trovai del legno ordinario: allora lo ricoprii con un tappeto chiaro.
Non mi metto una volta davanti a un tavolino da scrivere, senza ricordarmi quello: quel tavolino ove scrissi i miei còmpiti, ove studiai le mie lezioni, china sul quale masticai le maledette novanta lezioni di latino senza poterle mai digerire; ove lessi tanti libri, tanti giornali, ove scrissi le mie prime lettere, ove schizzai tante figurine, tanti paesetti, ove, finalmente scrissi le mie prime novelle! Caro e benedetto tavolino! Allorché mi assidevo innanzi a te scordavo tutto il resto del mondo che mi circondava: tu eri il mio confidente, il mio inspiratore, il mio compagno di studio e di lavoro, ed io t’amavo come un amico d’infanzia, come un essere vivente...
Sparito anche tu! Ove sei? Ove sei? Oh, non narrare a nessuno gli arcani, i dolori, le gioie e le fantasie che un tempo ti confidai! Sveleresti tutti i segreti del mio cuore, tutta la mia vita di bambina e di fanciulla.
Tanti altri oggetti addobbavano la mia cameretta, ed io li rivedo fra la crescente penombra che la invade. Il mio crocefisso d’argento, la pila del-