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146 nell'azzurro


Ne feci parola a Franceschino. Il furbo rattenne il riso e mi disse: — Credo che sia peccato!

Il pensiero diventò inquietudine: vidi in sogno una infinità di specchi che riflettevano mille mie immagini, tutte vestite di nuovo, che mormoravano:

— È peccato! È peccato! È peccato.

Allora l’inquietudine diventò rimorso: me ne confessai, e don Antonio mi disse:

— Sì, è peccato, peccato, figliuolina mia. Ditemi, durante il tempo che state a contemplarvi nello specchio, non sentite la corda della vanità agitarvisi nell’anima? Non sentite una gioia proibita nel pensare che molte vostre amiche, più povere, più brutte, non possono sfoggiare un abbigliamento ricco al pari del vostro, non possono sfoggiare i vostri bei capelli, i vostri begli occhi, la vostra fresca carnagione... tutte cose caduche, figlia mia: non sentite una grande e velenosa invidia nel ricordarvi la ricchezza dei vestiti, la bellezza di altre vostre amiche più ricche e belle di voi? E tutto questo non è peccato?

«E l’ozio? Sì, figliola mia, il tempo che consumate durante queste ore di mondana contemplazione — perché certo non state davanti allo specchio con la calza in mano — non è il più grave peccato?»