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la casa paterna | 139 |
me — perché, qualche tempo dopo la mia partenza, Franceschino in una sua lettera scriveva: «Pipy è morto! Dopo la tua partenza era sempre malinconico, non cantava più, e ieri mattina lo trovai morto, stecchito nella sua palazzina azzurra. Che sia morto di dolore o di vecchiaia? L’avevamo da quasi dieci anni; non è vero?».
«Di dolore o di vecchiaia? Né per l’uno né per l’altra; forse — gli risposi — sarà morto di fame o di sete, perché non vi curavate di lui». E credo d’aver pianto...
Accanto a Pipy, fra le due finestre, c’era il mio pianoforte: oh, quante volte non cercai d’imitare la musica di Pipy, quante volte questo non accompagnò le mie suonate con le sue, spesso vincendomi in lunghezza e soavità! Quando ero sola mi compiacevo di quella suonata a «due mani ed un becco» come diceva Franceschino, ma quando dovevo suonare davanti ad altri, la mia prima cura era di allontanare Pipy: quel dannato faceva uno scandalo ogni volta che mi vedeva posar le mani sulla tastiera...
Ora non v’è più nulla nella nostra sala da pranzo, né un mobile, né un lembo di tenda; ma io rivedo tutti gli oggetti che conoscevo sì bene, che avevo tanta cura di mantenere sempre lucidi, sempre nuovi.