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la casa paterna 133


po aveva dato un velo di sfumature color rame e verdognole, con le finestre piuttosto piccole dalle imposte azzurre anch’esse, coi davanzali di lavagna e di granito: la trovo tinta a varii colori, a striscie rilevate, tinte di giallo su fondo d’un grigio oscuro: le finestre sono, o almeno mi sembrano, più grandi, alcune trasformate in balconi.

È bella, bella, non c’è che dire, ma come avrei preferito trovarla come la lasciai, vecchia, bruna, modesta. Oh, se dentro è lo stesso, irriconoscibile, a che mi serve entrare? Sono tentata di tornarmene indietro: ma no, ecco tre cose ancora nel loro primo stato: mille ricordi, un palpito del mio cuore! La porta d’entrata è ancora la stessa, grande, solida, verniciata di marrone, con lo stesso battente, una mano chiusa di ferro con un braccialetto d’ottone, con la stessa serratura: ecco, ecco un ricordo che mi fa sorridere. Una volta al babbo era venuta l’idea di farmi imparare, durante le vacanze, un po’ di... latino, niente di meno! Le lezioni le pigliavo da un professore nostro vicino, ma sin dai primi giorni provai una noia, un’uggia tremenda nell’apprendere quella lingua gloriosissima, antichissima, famosissima, ma anche noiosissima. Tuttavia, non volli dispiacere al babbo col rinunziare, però dal fondo del mio cuore, coi miei fervidi voti, affrettavo la fine delle vacanze, contavo i giorni, e per essere