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la carrozza attraversava le vie e le piazze inondate di una luminosità argentea, si guardava attorno con curiosità, sentiva l’odore delle gaggie e delle rose, e ricordava il giorno del suo arrivo. Roma le era ancora sconosciuta, e così il mondo e la vita. I due testimoni e lo sposo parlavano inglese e spagnuolo; ed ella, che capiva solo qualche parola di quest’ultima lingua, si sentiva, anche in quel giorno, lontana da tutti, abbandonata a sè stessa. Per confortarsi pensava a Salvador sembrandole di vederlo, saltellante e gorgheggiante nella casa del moribondo zio Asquer, come un uccellino in un cimitero. Il bambino infatti dava molto da fare a Costantina mentre questa preparava la colazione: appunto come gli uccelli egli provava una speciale ripugnanza a posare i piedi per terra; le sedie, i divani, i tavolini e i cardini degli usci erano i suoi punti d’appoggio preferiti. Per farlo star quieto Costantina lo incaricò di sgranare i piselli, e per qualche momento regnò una pace profonda, quasi inquietante.

— Salvador, cuoricino mio, che fai?

Egli taceva: ella andò a vedere e trovò un mucchio di buccie e nel grembiale turchino del bimbo solo due o tre granellini di piselli....

— Ah, — gridò disperata, — meglio aver a che fare con le bestie feroci che con bambini della tua età!

Meno male che il padrone, quella mattina, se