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grido, sì, rispondeva al muto lamento di Lia. Affacciata alla finestruola, mentre la luna rossa tremulava come un gran fiore sopra i cespugli lungo la spiaggia, dopo aver atteso invano la lettera dello zio, ella ascoltava il grido dell’assiuolo e le sembrava che anche l’uccello, solo al mondo, senza speranze, senza amore, invocasse un aiuto pur disperando oramai d’essere ascoltato. Da anni e anni Lia lo aveva sentito chiamare così, dal medesimo punto, là dietro la grande palude che la luna, sul tardi, inargentava come uno specchio. Le pareva che l’assiuolo fosse sempre lo stesso, come lei era sempre la stessa: solo, dieci anni prima, quando ella sognava la Scuola Normale di Sassari, il grido dell’uccello era, o sembrava a lei, più giovanile, più insistente, talvolta anche disperato; adesso invece era flebile, stanco e rassegnato. Esso chiamava per sentir l’eco del suo grido e assicurarsi che viveva ancora: così, pensava Lia, così l’anima nostra: essa spera, pur sapendo che tutto è finito, per illudersi d’essere viva.


*


Ma verso la fine di aprile arrivò da Roma una lettera raccomandata con dentro un vaglia di duecento lire per il viaggio.

Mentre Lia palpava il foglietto e tremava e balbettava, la zia Gaina fissava sulla lettera i