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sta supposizione infondata, Lia, nonostante le sue lamentele, non mancava di pretendenti.
Mentre preparava il lievito o gramolava la pasta, la zia Gaina parlava male del suo cugino di Roma, dipingendolo come uno squilibrato, e cercava di convincere Lia a non lasciare il paese.
— Dà retta a me, consolazione mia; Dio, che pensa agli uccelli dell’aria, penserà, a te, anche se tu non vorrai sposare il maestro o il figlio di Maria Franschisca Barca....
— Nè l’uno nè l’altro, zia: il primo è vecchio e povero, il secondo è un ubbriacone. Prima voglio morire!
— Del resto, vedrai che tuo zio non ti risponderà, più: egli è leggero e si pente subito di quello che dice. A quest’ora si sarà già pentito.
Lia non rispondeva, ma a misura che i giorni passavano le pareva di aver sognato e ricadeva nella sua antica tristezza: seduta sotto il palmizio fissava il mare violetto e le montagne rossastre e azzurre del Nuorese e diceva a sè stessa che quella sarebbe stata la sola, l’eterna cornice al quadro della sua vita desolata.
La primavera sorrideva intorno a lei e circondava di fiori anche le paludi da cui i gridi dei trampolieri salivano rauchi e velati come se i nidi fossero costrutti sotto l’acqua immobile e densa.
Nelle ore del meriggio Lia guardava la landa